di Claudia Baroni.
Il COVID-19 fa paura, com’è giusto che sia, visto che rappresenta una minaccia di dolore e di morte. Questo tema è già stato bene illustrato dal prof. Paolo Moderato nell’articolo “Coronavirus: ecco come la paura agisce su di noi”, in cui ha spiegato come nasce la paura e i suoi effetti su noi stessi.
Ma che conseguenze può avere nel nostro approccio verso gli altri e in particolare verso i gruppi “esterni”, quelli a cui non apparteniamo?
Spesso la paura porta a maggiore intolleranza, alla disumanizzazione, alla richiesta di punizioni, può fare emergere pregiudizio e discriminazione. Ricorderemo tutti come all’inizio del rischio sanitario si siano registrati episodi di intolleranza verso cittadini asiatici e tutt’oggi non è raro sentire parlare del COVID come virus Cinese o Wuhan virus, volendo in qualche modo sottolineare che la responsabilità proviene da lontano, che è di altri. La paura spesso porta a focalizzarsi su se stessi e a far pensare solo ai rischi che individualmente (nel nostro piccolo nucleo) possiamo trovarci ad affrontare. Ci porta a cercare di difendere il nostro piccolo orticello.
È possibile al contrario che l’attuale situazione porti ad unire e collaborare invece che a discriminare?
Un recente studio pubblicato su Nature Human Behaviour ci illustra come la risposta possa essere positiva e come gran parte delle volte lo sia.
La percezione di essere tutti accomunati, in un modo o nell’altro, da un destino comune, indipendentemente dall’etnia, dalla religione, dallo status sociale, ecc. può essere un motore di aggregazione e di cooperazione. Anche in questo momento gli episodi di collaborazione ed altruismo sono numerosi e la generosità dimostrata attraverso le donazioni che tanti singoli cittadini hanno fatto è sempre sorprendente e genera un senso di orgoglio in noi, come comunità pronta a mettersi in gioco. In molti è prevalsa la spinta positiva data dalla percezione che solo collaborando, tutti, muovendosi verso un obiettivo comune, possiamo far fronte all’emergenza.
Ma in definitiva, il fatto che la bilancia penda verso il prevalere dei pregiudizi o verso la collaborazione dipende, come sempre, da come ci sono presentati gli eventi e dalle parole utilizzate.
Il proporre certe immagini o l’utilizzo di determinate parole porta, inevitabilmente, a far crescere la percezione di doversi difendere.
Giusto per fare un esempio, avere visto gli scaffali dei supermercati vuoti e il fatto che il fenomeno sia stato classificato come “panic buying” ha generato reazioni che hanno a loro volta amplificato il fenomeno stesso. Hanno esacerbato l’individualismo e il bisogno di proteggersi dagli attacchi degli altri che sono stati vissuti come quelli che ci sottraevano il cibo e che rischiavano di lasciarci in difficoltà. Avere parlato di “panico” ha sicuramente innescato associazioni mentali che hanno aumentato il senso di paura.
Numerosi studi hanno però dimostrato che di fronte a disastri come le catastrofi ambientali o sanitarie c’è una maggiore tendenza a collaborare invece che a competere. Per potere supportare questa tendenza è necessario che le comunicazioni enfatizzino il senso del noi, il senso di appartenenza e non diano ampio spazio a parole e immagini che remano in senso contrario. Le scienze comportamentali ci dimostrano infatti che quando siamo posti davanti alla possibilità di una perdita, in questo caso l’immediato e concreto rischio di trovarci senza beni di prima necessità, siamo portati a prendere decisioni irrazionali che rischiano di offuscare i guadagni che possiamo ottenere se collaboriamo. Guadagni che forse sono meno visibili e concreti, soprattutto nel breve termine, ma su cui è necessario focalizzarci.
Fonti
Bavel, J.J.V., Baicker, K., Boggio, P.S. et al. Using social and behavioural science to support COVID-19 pandemic response. Nat Hum Behav (2020). https://doi.org/10.1038/s41562-020-0884-z