di Chiara Curiale.
Un uomo e suo figlio vengono urgentemente portati in ospedale dopo aver avuto un incidente con la macchina. Una volta arrivati in ospedale, il chirurgo che sta per operare il ragazzo lo guarda ed esclama “Non posso curarlo, è mio figlio!”. Ed è qui che ci viene posta la domanda: com’è possibile?
Molti di voi conosceranno già questo apparente paradosso, formulato nel 1983 dal filosofo Douglas Hofstadter; chi lo legge per la prima volta, facilmente cade in un automatismo che genera un pregiudizio: sentiamo come inconciliabili le informazioni che ci vengono presentate perché, impulsivamente, leggendo “chirurgo” (al maschile) non riusciamo a mettere a fuoco il fatto che si possa trattare di una donna, la madre del ragazzo (la soluzione canonica al paradosso). Questo semplice problema ci dimostra come siamo soggetti a bias impliciti ed automatici, che ci traggono in inganno continuamente e non superano la soglia della nostra consapevolezza. Come si traduce questo nella vita di tutti i giorni?
Quando si parla di questioni di uguaglianza di genere sul luogo di lavoro – perché faticare ad immaginare un chirurgo come donna èuna questione di gender equality – la situazione diventa preoccupante. Lasciatemi mostrare qualche dato. Rispetto agli uomini, le donne hanno minori probabilità di essere assunte1, ricoprono meno frequentemente posizioni di leadership2,3 e, a parità di lavoro svolto, vengono pagate meno4. Le scienze del comportamento usano il termine gender bias per indicare quello che comunemente viene chiamato “sessismo” e, cioè, la tendenza a discriminare una persona solo sulla base del proprio sesso. Il trattamento preferenziale ricevuto dagli uomini (specialmente se bianchi ed eterosessuali) a discapito delle donne è tutt’altro che infrequente nei contesti lavorativi.
Un’analisi condotta dal New York Times2 ha mostrato che, tra gli amministratori delegati delle più grandi compagnie americane, il numero di persone che si chiamano John (5,3%) e David (4,5%) supera il numero di donne che ricoprono quella posizione (4,1%). E non vi sorprenderà scoprire che questo stesso risultato è stato riscontrato anche nelle 200 più grandi aziende Australiane – dove a primeggiare sono gli uomini di nome Peter (26 persone con questo nome), a fronte di un numero di donne pari a 23 unità3. Per non parlare del fatto che nessuna nazione al mondo, al momento attuale, ha colmato il Gender Pay Gap (GPG)4, definito come la differenza di salario tra uomini e donne – e il divario tra i redditi complessivi tende ad essere ancora più grande rispetto alle differenze nello stipendio! Nonostante i passi in avanti fatti negli ultimi decenni, secondo il World Economic Forum, ci vorranno 257 anni per raggiungere la piena e completa parità di genere relativamente alle opportunità e alla partecipazione economica4.
L’EIGE1, Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, calcola un indice di uguaglianza (in centesimi) basandosi sullo stato delle donne in una serie di domini: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere, salute, violenza contro le donne. In Italia, le diseguaglianze sono più pronunciate nei domini del potere (47,6 punti su 100), del tempo (59,3 punti su 100) e del lavoro (63 punti su 100). Sareste sorpresi se vi dicessi che l’Italia è ultima in UE proprio nel dominio lavoro? La situazione non può lasciarci indifferenti; non se sappiamo che le diseguaglianze ci fanno male. Società diseguali e ricchezze mal distribuite hanno conseguenze enormi per la salute ed il benessere di tutti i cittadini, anche per chi non è toccato dal problema5.
Gli scienziati del comportamento sono chiamati a dare il proprio contributo per spiegare come funzionano le diseguaglianze di genere sul luogo di lavoro e come fare per rendere gli ambienti di lavoro più eguali ed inclusivi.
La diseguaglianza di genere, spiegata
Ci sono tutta una serie di bias, errori sistematici di giudizio, che limitano le possibilità di successo delle donne sul luogo di lavoro, impattandone il benessere. Ciascuno di questi fenomeni comportamentali e cognitivi è oggi identificato da un nome, che ci aiuta a riconoscerlo. Di seguito ne descriviamo alcuni.
– Performance support bias: si riferisce alla tendenza a fornire maggiori risorse ed opportunità ad un genere – solitamente quello maschile – a discapito dell’altro. Uno studio6 mostra come, tra gli addetti alle vendite (pagati sulla base della performance e delle commissioni), la differenza salariale tra uomini e donne si spiega con il fatto che alle donne vengono solitamente assegnati minori compiti di vendita rispetto ai colleghi maschi.
– Performance review bias: questo tipo di errore è rintracciabile nei casi in cui i superiori, i manager o i colleghi giudicano la prestazione lavorativa sulla base del genere dell’impiegato che la compie, anche quando le valutazioni dovrebbero basarsi esclusivamente sul merito. Le persone, infatti, tendono a basarsi sul genere, sulla razza e su altri stereotipi quando devono giudicare la performance di un impiegato e questa tendenza viene esacerbata quando i criteri di valutazione sono ambigui7.
– Performance reward bias: si definisce così la predisposizione ad assegnare le ricompense sulla base del genere, della razza o di altri stereotipi. Tra le ricompense in ambito lavorativo rientrano le promozioni, gli aumenti di stipendio o altri premi basati sul merito. La ricerca di Castilla (2008)8 ha dimostrato che le donne e le minoranze ricevono minori incrementi di stipendio dei maschi bianchi, a fronte di un identico punteggio di valutazione della performance, ottenuto nello svolgimento dello stesso lavoro.
– Affinity bias: indica la tendenza umana a preferire ed apprezzare le persone simili a sé. Questo bias spiegherebbe perché, in fase di ricerca del personale, i recruiter potrebbero preferire candidati con cui sentono di avere qualcosa in comune. Se chi è incaricato di assumere e valutare le risorse umane è un individuo di genere maschile (bianco, magari!), non dovremmo stupirci se avrà la propensione ad assumere e valutare più positivamente i candidati maschi, semplicemente perché percepisce una maggiore affinità con questi ultimi.
– Effetto blind spot: si riferisce alla nostra incapacità di prendere atto dei nostri pregiudizi cognitivi. Riconosciamo, cioè, che gli altri possano essere soggetti a bias, ma sottostimiamo la possibilità di essere noi in primo luogo soggetti ad errori di giudizio. Responsabili delle risorse umane, leader, manager e impiegati a tutti i livelli dovrebbero, al contrario, divenire consapevoli degli errori in cui tutti, tendenzialmente, cadiamo per migliorare radicalmente le opportunità offerte alle donne nel mondo del lavoro.
In una società dove regnano questi bias di giudizio, le donne devono impegnarsi il doppio degli uomini per raggiungere la stessa posizione lavorativa, a parità di capacità e competenze di base. In più, come ben sappiamo, le aspettative degli altri contano: se il leader o i colleghi si aspettano che un impiegato donna abbia una prestazione minore (solo sulla base del genere), è probabile che quella donna sarà portata a conformarsi con le aspettative, facendo effettivamente peggio dei colleghi maschi – anche quando, magari, le sue capacità superano quelle del sesso opposto!
Il risultato di tutto quanto finora descritto è il cosiddetto glass ceiling.Quella del “soffitto di vetro” è una metafora che indica l’impedimento gerarchico che ostacola le donne e le minoranze nel raggiungimento di un elevato successo professionale. Ma il soffitto di vetro è realmente così resistente?
Come la Behavioral Economics può aiutare nel ridisegnare contesti di lavoro inclusivi?
Il soffitto di vetro può essere scalfito. E la Behavioral Economics ci dice come. Ci sono una serie di strategie, interventi e consigli che, grazie all’applicazione dei principi del Nudging e delle scienze del comportamento, si sono dimostrati efficaci nella promozione di contesti di lavoro più inclusivi nei confronti delle donne. Ecco alcuni consigli dettati da esperienze di ricerca:
– Includi più donne nelle liste di candidati per le assunzioni o le promozioni. Le liste che contengono solo uno o due nomi di donne riducono le probabilità che quelle donne vengano assunte9.
– De-identifica i curriculum dei candidati in fase di assunzione, rimuovendo tutte le informazioni demografiche.
– Poni attenzione al modo in cui formuli l’annuncio di lavoro. Tieni bene a mente che proporre un lavoro part-time aumenta il numero di candidate donne del 16%10. Lo stesso vale per il lavoro flessibile11.
– Usa interviste strutturate durante le procedure di reclutamento del personale e assegna i punteggi alle risposte sulla base di criteri standardizzati e predefiniti. Questo ti aiuterà ad eludere l’affinity bias.
– Se il giudizio che diamo circa la performance dei colleghi o impiegati non è così accurato come pensiamo, una soluzione è quella di standardizzare le procedure di valutazione e di basarle sulle abilità. È necessario rendere chiaro cosa si sta valutando e come.
– Fa’ in modo che i processi per l’assegnazione delle promozioni, delle ricompense e del salario siano chiari, trasparenti e facilmente accessibili a tutti.
– Nomina “gestori della diversità” o task force sulla diversità, che hanno il compito di monitorare i processi di promozione e selezione del personale. Questo potrebbe ridurre i bias in chi si trova a dover reclutare personale o a promuoverlo perché è consapevole del fatto che le proprie decisioni saranno supervisionate.
– Implementa un training regolare per tutti i membri della tua organizzazione (donne comprese!) relativamente al gender bias e a tutti gli altri errori di giudizio che possono impattare sull’inclusione delle donne sul luogo di lavoro. Il modo migliore per ridurre l’effetto dei bias, per loro natura in gran parte automatici e inconsapevoli, è quello di prenderne consapevolezza ed imparare a riconoscerli.
– Dai il buon esempio. Comincia tu per primo a trattare equamente le donne che lavorano con te perché, per effetto della norma sociale, è possibile che tu spinga anche chi ti sta intorno a fare lo stesso.
Questi sono solo alcuni degli esempi che ci mostrano come l’Economia Comportamentale può aiutarci nel ridisegno di ambienti di lavoro che facciano della diversità il loro punto di forza. È anche grazie alle conoscenze trasmesseci dagli scienziati del comportamento che oggi possiamo sperare di mettere fine alle diseguaglianze sul luogo di lavoro e di fornire a tutti – uomini e donne, vecchi e anziani, bianchi e di colore – le stesse opportunità lavorative ed economiche. Non importa il tempo che ci vorrà: gli architetti delle scelte possono e devono contribuire a questo cambiamento culturale, necessario per la costruzione di società più egualitarie – e, di conseguenza, più felici.
Fonti
1Reuben, E., Sapienza, P. & Zingales, L. (2014). How stereotypes impair women’s careers in science. PNAS, 111 (12) 4403-44. https://www.pnas.org/content/early/2014/03/05/1314788111/tab-article-info
2Wolfers, J. (2015). Fewer Women Run Big Companies Than Men Named John. The New York Times. https://www.nytimes.com/2015/03/03/upshot/fewer-women-run-big-companies-than-men-named-john.html?referrer=&_r=1
3Walhquist, C. (2015). Fewer women at the helm of top Australian companies than men named Peter. The Guardian. https://www.theguardian.com/australia-news/2015/mar/06/more-men-named-peter-at-the-helm-of-asx200-companies-than-women
4Global Gender Gap Report 2020. The Word Economic Forum. http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf
5Wilkinson, R. & Pickett, K. (2009). La misura dell’anima: perché le diseguaglianze rendono le società più infelici. Allen Lane.
6Madden, J.F. (2012). Performance-Support Bias and the Gender Pay Gap among Stockbrokers. Gender & Society, 26(3), 488-518. https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0891243212438546?journalCode=gasa#articleCitationDownloadContainer
7Mackenzie, L.N., Wehner, J. & Correll, S.J. (2019). Why Most Performance Evaluations Are Biased, and How to Fix Them. Harvard Business Review. https://hbr.org/2019/01/why-most-performance-evaluations-are-biased-and-how-to-fix-them
8Castilla, E. J. (2008). Gender, race, and meritocracy in organizational careers. American journal of sociology, 113(6), 1479-1526. https://www.journals.uchicago.edu/doi/full/10.1086/588738
9Behavioral Insight Team (2018). New for employers: the latest evidence on What Works to reduce the Gender Pay Gap. https://www.bi.team/blogs/new-for-employers-the-latest-evidence-on-what-works-to-reduce-the-gender-pay-gap/
10Behavioral Insight Team (2020). Switching the default to advertise part-time working boosts applications from women by 16%. https://www.bi.team/blogs/switching-the-default-to-advertise-part-time-working-boosts-applications-from-women-by-16/
11Behavioral Insight Team (2017). How flexible working can improve gender equality in the workplace. https://www.bi.team/blogs/how-flexible-working-can-improve-gender-equality-in-the-workplace/