“I comportamenti sono difficilissimi da cambiare, per cui quando ci si imbatte in qualcosa che ha un effetto così profondo e riproducibile, gli psicologi dovrebbero mettersi allerta e dire: ‘Cosa sta succedendo qui? Come facciamo a moltiplicare questi risultati?’ Alla fine, quello che ci interessa è come indurre queste esperienze che in un certo senso aiutano le persone a essere più flessibili, a sentirsi più connesse tra loro, a riformulare i problemi”.
Johannes Eichstaedt, “Possiamo salvare il mondo prima di cena”, p. 127
di Martina Galimberti.
Gli ultimi mesi hanno messo a dura prova ogni aspetto della nostra vita così come l’abbiamo sempre conosciuta. Abbiamo combattuto, e stiamo tutt’ora combattendo, contro un nemico invisibile che ha privato ognuno di noi di qualcosa e ci ha costretto, purtroppo o per fortuna, a modificare le nostre prospettive, facendo un passo indietro dall’egocentrismo che ormai pervade la società occidentale. Sarebbe bello che quell’unione sperimentata negli ultimi mesi, quel senso di vicinanza nel perseguire tutti uno stesso obiettivo, possa continuare e si estenda ad altri aspetti del vivere comune.
Le battaglie e i motivi per cui combattere non mancano perché, seppur abbiamo messo in stand by le nostre vite per qualche mese, il mondo ha continuato a girare e i problemi che c’erano ieri continuano a rimanere oggi. Insomma, non andrà tutto bene semplicemente perché già non andava bene prima.
Tra le cause che più di tutte dovrebbero destare interesse e preoccupazione c’è quella del cambiamento climatico. Riguarda tutti, proprio come questo virus, e rischia di privare la natura del suo ruolo centrale nel nostro pianeta. Mi sono sempre sentita impotente di fronte a questa sfida che si può letteralmente sintetizzare con “salvare il mondo”. Ho sempre pensato, per una sorta di diffusione di responsabilità, che qualcuno se ne sarebbe occupato e che, prima o poi, sarebbe andato tutto bene. Insomma era relativamente un mio problema. È solo nell’ultimo anno che mi sono accorta realmente della drammaticità della situazione e della necessità di fare qualcosa. Che significa da una parte manifestare, studiare e informarsi, dall’altra cambiare ogni giorno, fare un piccolo passo in direzione di un valore più grande. Se tutti (davvero tutti) riuscissimo a modificare piccoli aspetti della nostra vita, potremmo dare un futuro migliore a questo pianeta.
Nel chiedermi cosa potessi fare, sono stata fortemente influenzata da ciò che avevo studiato e dai progetti su cui stavo lavorando. Mi sono chiesta come la Behavioral Economics spiegasse certi comportamenti e come gli interventi di nudging potessero concretamente aiutare a realizzare piccoli ma importanti cambiamenti.
Ecco qui spiegato, in pochi semplici passi, perché il cambiamento climatico non è il nostro primo pensiero quotidiano e cosa si può fare, nel nostro piccolo, per fare del bene al nostro pianeta.
Behavioral Economics e climate change: perché non ce ne (pre)occupiamo?
Siamo nel 2020 (nel caso ancora non lo aveste letto da qualche parte oggi) e abbiamo la possibilità di accedere ad ogni tipo di informazione in qualsiasi modalità e in ogni momento. Mai come oggi ignorare è una scelta. E infatti in pochi ignorano; in un sondaggio del 2019 condotto dalla Commissione Europea, l’84% dei cittadini italiani dichiara di considerare il cambiamento climatico un problema “molto serio”. Nello stesso sondaggio, quando si chiede se effettivamente si sono compiute azioni negli ultimi sei mesi per contrastare il problema, solo la metà degli intervistati (52%) risponde che sì, sta effettivamente facendo qualcosa (dati reperibili nel sito ufficiale della commissione europea, link in sitografia). Perché percepiamo il problema ma non tutti compiamo sforzi per affrontarlo?
Norme sociali. Anzitutto il comportamento umano è da considerare un fenomeno sociale e non personale: bisogna contestualizzarlo nella cultura e nella società di appartenenza. Se si vive in un contesto in cui i comportamenti positivi in direzione della salvaguardia ambientale non vengono né incentivati né rinforzati, sarà meno probabile la loro emissione da parte del singolo. I comportamenti che dovremmo emettere più di tutti per apportare cambiamenti concreti al pianeta, come utilizzare meno l’auto e mangiare meno carne, non sono associati a norme sociali forti e di impatto. Siamo più portati ad ammirare ed invidiare qualcuno che gira il mondo piuttosto che concentrarsi su quanta CO2 consumano i mezzi che utilizza per girarlo.
Hyperbolic discounting. Un altro ostacolo difficile da arginare, nonostante sia possibile comprenderne la natura, è rappresentato da un bias chiamato hyperbolic discounting. Di solito agiamo e ad ogni nostro comportamento corrisponde una risposta, sia essa positiva o negativa. Nessuna risposta immediata può tuttavia derivare dal prendere oggi decisioni che (forse) avranno un impatto reale e tangibile sull’ambiente solo tra qualche decennio. E, soprattutto, non ne deriva nessuna soddisfazione a breve termine. Molto meglio soddisfare la mia voglia di vedere Cancun spendendo il meno possibile piuttosto che cercare soluzioni ecofriendly che mi farebbero perdere tempo e denaro. Che male può fare una singola scelta?
Loss avversion (o avversione alla perdita). Questo effetto descrive la tendenza a percepire, a livello psicologico, una perdita come più dolorosa rispetto al piacere provato per un possibile guadagno. Collegato al fenomeno dell’hyperbolic discounting precedentemente descritto, l’avversione alla perdita spiega perché tendiamo a non cambiare comportamento in direzione di alternative più green. Semplicemente il cambiamento climatico viene percepito come una perdita a livello psicologico: perdita in termini di tempo, di energia e di sforzo. Ad esempio, tendiamo a focalizzarci sui benefici che ci da poter sfruttare la macchina a dispetto dei mezzi pubblici piuttosto che pensare all’emissione di anidride carbonica che si produce con questi comportamenti. In questo senso, prendere il treno risulta una perdita a dispetto del guadagno di tempo che mi procura guidare la macchina.
Effetto struzzo. Questo bias è uno dei miei preferiti. Il nome trae origine dalla pratica erroneamente associata allo struzzo di infilare la testa sotto la sabbia. In realtà, lo struzzo si china mettendo la testa il più possibile parallela al terreno per cercare di imitare un cespuglio. È un’arma di difesa che viene sostituita da una corsa sfrenata appena un predatore si avvicina troppo. Infilare la testa sotto la sabbia, figurativamente parlando, è un comportamento tipicamente umano. Questa mal-attribuzione ci aiuta, però, a descrivere un comportamento che ognuno di noi ha esperito almeno una volta nella vita.
Sapete quando c’è una notizia che proprio vi fa stare male, vi spaventa e il cui solo pensiero di affrontarla vi fa venire i brividi? Bene. Provate a pensare a cosa facciamo la maggior parte delle volte in questi casi. La risposta è spesso una: nascondiamo, figurativamente, la testa sotto la sabbia. In altre parole, mettiamo in atto comportamenti di evitamento per cercare di non pensarci. Questo è il motivo per cui, durante l’università, alla preparazione dell’esame di psicologia clinica, ho sempre preferito una serie tv su netflix. Tutto meraviglioso, l’ansia scende lasciando il posto a un effimero senso di serenità. C’è solo un piccolo problema: prima o poi la realtà si inserisce prepotente nelle nostre vite, a volte in un momento in cui proprio è impossibile recuperare il tempo perso (psicologia clinica è stato il mio ultimo esame: non sapete quanto mi sia maledetta!).
Così è per il cambiamento climatico. Più ascoltiamo le notizie con superficialità, meno ci informiamo, più ci culliamo nell’illusione che “andrà tutto bene” più, quando la realtà busserà alla porta, l’impatto sarà devastante.
Optimism effect. Questo bias descrive la tendenza a credere che sia improbabile che qualcosa di negativo possa capitare proprio a noi. Per descrivere questo effetto non posso non richiamare alla memoria i primi due mesi di quest’anno. Quando l’epidemia di coronavirus ha messo in ginocchio la Cina, leggevamo le notizie a riguardo con un certo grado di compassione, percependo emotivamente la sofferenza di chi stava affrontando quell’incubo. Sono nati movimenti di sostegno a distanza, sia per portare aiuti concreti sia per contrastare stereotipi e pregiudizi. Quanti avrebbero immaginato che qualche settimana dopo saremmo stati travolti dalle stesse preoccupazioni? Sembrava una situazione così lontana, sfortunata e che ci riguardava in maniera relativa.
Percepire un problema “là” e non “qui” è funzionale al nostro benessere: ci permette di portare avanti le nostre vite. Più è lontana la situazione, più sarà complicato immaginare che possa accadere anche a noi. Il virus, però, non ha conosciuto né distanze né tempo e ci ha raggiunti. Siamo diventati i “là” di qualcun altro. La pandemia Covid-19 è perfetta per descrivere quanto il cambiamento climatico sembri “là”, in un futuro imprecisato, così lontano che difficilmente potrà toccarci. Sì, percepiamo il cambiamento meteorologico, il classico “non ci sono più le mezze stagioni” ma, quando ci svegliamo la mattina, il nostro primo pensiero difficilmente sarà lo scioglimento dei ghiacciai. Il problema è “qui e ora”.
Ho però una buona notizia: possiamo fare qualcosa.
Come? Ve ne parlerò nel prossimo articolo!
Fonti
D. Kahneman, “Pensieri lenti e veloci”, Ed. Mondadori (2011)
R. Thaler & C. Sunstein “Nudge. La spinta gentile”, Feltrinelli Editore Milano (2008)
Sitografia
https://blogs.scientificamerican.com/observations/can-you-change-for-climate-change/
https://digitalcommons.bard.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1003&context=bcep
https://www.fondazionecariplo.it/static/upload/qua/0000/qua-nudges-web.pdf
https://ec.europa.eu/clima/sites/clima/files/support/docs/it_climate_2019_en.pdf